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Parole, parole, parole, soltanto parole, parole fra noi

Graffiti dalle grotte di Altamira: impronta di mano e cavallo rosso

L’universo simbolico è antico quanto l’uomo, che già in età paleolitica incideva segni sulle pareti delle caverne nel tentativo di comunicare la propria esistenza: l’impronta della sua mano, o il possesso del territorio, le necessità immediate. E finanche i suoi sogni: un gran numero di cervi o di bisonti da cacciare.

L’immagine – il disegno – è dunque il primo sistema comunicativo dell’uomo.[1]

In seguito dal segno, inciso o tracciato, si passa al segnale, cioè si carica il segno di un significato convenuto: mentre segno può essere qualsiasi cosa da cui si possano trarre delle informazioni soggettive, segnale è un segno carico di una convenzione, di un significato convenuto tra le parti, tra i partecipanti di un gruppo linguistico, o di qualsiasi altro tipo, o imposto da un’autorità superiore. Questa è la differenza tra segno e segnale. Ciò si può dire sia avvenuto con la scrittura: pian piano il disegno figurato acquista un significato convenuto o un suono e si trasforma quindi in segnale o disegno simbolico.

Il simbolo visivo nasce dunque prima di quello verbale. Però si dice che la storia incominci con la scrittura. Il resto è preistoria.

Credo invece che si possa dire che il pensiero dell’uomo inizi con la verbalizzazione: il tentativo di capire il reale e in qualche modo di impossessarsene attraverso l’attribuzione di nomi alle cose. I nomi determinano la realtà di tutte le cose: persone, oggetti, sensazioni, sentimenti, ecc.

È con le parole che interpretiamo il mondo.

Tutte le forme comunicative, immagini, gesti, musica, scrittura, ecc. infatti non possono fare a meno di un riferimento verbale che definisca e nomini il loro senso: «è la parola che manifesta il suo potere, non l’immagine».[2]

Sono le parole che concorrono alla formazione del pensiero e finanche dei sentimenti come afferma Umberto Galimberti: «i sentimenti si imparano» dagli esempi, ma soprattutto dal quell’enorme giacimento di pensieri e di esperienze di vita che è la letteratura, fatta appunto di parole. Inoltre logo (λόγος) è un concetto filosofico che, dal verbo légo (λέγω) significa pensare per capire, e solo dopo dire per raccontare. Oltre a parola, pensiero, studio, concetto, ecc.

Quindi avere un grande bagaglio linguistico significa avere la possibilità di pensare più facilmente e più approfonditamente, di esprimere meglio le proprie emozioni e i propri pensieri, ma soprattutto di poterne creare di più complessi o di più profondi. Come avere molti più pezzi di Lego permette di costruire molti più oggetti e più complessi. Meno parole si hanno, meno pensieri si possono elaborare.

Certo si sopravvive, ma in modo un po’ più elementare, funzionale, primitivo, rozzo, terra terra, sì più legati alla terra ma più distanti dal cielo. Vero anche che a volte bastano tre parole per fare grande poesia:

Mi illumino d’immenso.

Ma sono rare e grandiose eccezioni. Non tutti sono Ungaretti.

Della parola portoghese saudade, che indica un profondo stato di malinconia, ad esempio, non esiste una traduzione in italiano. Solo nella lingua napoletana abbiamo una parola con un significato simile: alleria (profonda malinconia, ma anche quella brezza leggera che arriva mentre stai pensando a qualcosa, riportandoti indietro nel tempo, a momenti più felici).

Le parole che usiamo modellano la realtà perché portano in sé una visione del mondo. Perciò hanno un grande impatto sulle emozioni, concorrono alla formazione del pensiero, del ragionamento, della coscienza.

luce che filtra tra gli alberi

Ancora, in italiano non abbiamo una parola come Komorebi che in giapponese esprime una impalpabile emozione: la gioia che si prova attraversando la luce che filtra attraverso le foglie degli alberi e l’ombra. Oppure Ubuntu, parola che in lingua Xhosa esprime una filosofia di vita: come possiamo essere felici quando altri sono tristi? L’io integrato nel prossimo. Meraviglie di parole capaci di comunicare pensieri complessi, se non vera poesia.

Il 23/12/2016, Tullio De Mauro (31/3/1933 - 5/1/2017) grandissimo studioso della lingua italiana pubblicò su «Internazionale»: “il Nuovo Vocabolario di base della lingua italiana”. In questo vocabolario sono presenti circa 7.500 parole, quelle in cui si esaurisce la quasi totalità dei nostri discorsi. Anzi, sono divise in tre sezioni di frequenza digradante, e le prime 2.000 da sole coprono l’86% delle occorrenze. Sì 2.000 parole non sono molte, ma sono appunto dette ‘parole fondamentali’.

Sono quelle che servono alla sopravvivenza. Come afferma anche Luca Serianni: «un bambino italofono si affaccia alla scuola elementare con una dotazione di 2000 parole.» Un vocabolario abbastanza ristretto.

È un problema? Sì, è un grosso problema, perché, «come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola.»[3]

Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare.

I pensieri sono fatti di parole, poi ci sono le sensazioni e le emozioni, che possono anche vivere da sole, ma hanno bisogno di parole per essere espresse, comunicate, scambiate. E ancora, ci sono le lingue dei segnali che significano parole convenute, e le espressioni facciali e corporali che possono essere naturali e comprensibili da chiunque come aggressività o amicizia, o convenute, quindi appartenenti alle varie culture, come i gesti.

E poi ci sono i linguaggi dell’immagine e dell’arte, non sempre comprensibili perché dipendono dalla sensibilità e dalla cultura individuale; e la musica, che è una meravigliosa lingua fatta di vibrazioni in rapporti quantitativi fra loro; e la matematica, linguaggio universale, astratto, che pur non facendo riferimento ad oggetti serve a conoscere e capire il mondo, sia quello infinitamente piccolo, sia l'infinitamente grande: l’universo o gli universi; poi ci sono i linguaggi scientifici che usano la matematica non in astratto, ma con riferimenti a cose, elementi, o persone, tipo la fisica o la chimica o la statistica. E in tutte vigono regole di tono, di tempo, di grandezza, di prossimità, di rapporti, ecc.

Ma spesso si sente dire: Fatti, non parole! Sì, con il punto esclamativo, come per affermare una grande verità. In effetti cosa sono i fatti se non racconti, esposizioni, comunicazioni? Prendiamo la Storia. Cos’è se non una ricerca continua di documenti e una esposizione personale di accadimenti? Ecco perché oggi in Europa ci sono tante persone che negano i crimini nazisti. Perché hanno fatto una lettura diversa da quella fatta dalla maggioranza degli storici.

Una lente di ingrandimento scopre le bugie sotto la verità

Ma anche nella cronaca possiamo notare come i fatti siano spesso opinioni personali: un passante viene investito in strada. Cinque testimoni vengono intervistati da un poliziotto. Esporranno tutti la stessa scena o avremo “testimonianze oculari” diverse?

E i titoli dei giornali non diranno una loro verità a seconda della posizione politica?

Un giovane raccoglitore di pomodori, travolto sulle strisce da un fuoristrada condotto da un automobilista risultato positivo al test alcolico.

Oppure:

Investito un emigrato clandestino che attraversa col rosso. 

Altro che fatti: parole. «Le parole sono importanti.» Ammoniva Nanni Moretti nel film Palombella rossa del 1989. «Solo le parole contano. Il resto sono chiacchiere.» Sentenziava con ironia Eugene Ionesco. Se le cose che vediamo non hanno un nome, non le comprendiamo. Sono ineffabili (dal lat. ineffabĭlis, pref. in- = non, ed effabĭlis = che si può dire) cioè non si possono esprimere con parole.

«La nostra - dice Roland Barthes – più che una civiltà delle immagini è una civiltà della scrittura, che rimanda ogni forma comunicativa a quel sistema di segni complesso e totalizzante che è la lingua.»[4]

Inoltre Umberto Eco scrive:

«L’uomo è un animale simbolico, ed in questo senso non solo il linguaggio verbale, ma la cultura tutta, i riti, le istituzioni, i rapporti sociali, il costume, altro non sono che forme simboliche [Cassirer, 1923; Langer, 1953] in cui esso racchiude la sua esperienza per renderla interscambiabile: si instaura umanità quando si instaura società, ma si instaura società quando vi è commercio di segni.»[5]

I rapporti tra gli uomini dunque si fondano sullo scambio continuo di senso, o meglio, come l’ha definito Eco, su un “commercio disegni”, nel senso di scambio, naturalmente.

Ma il simbolo ha finito col prevalere su gran parte della comunicazione, su gran parte del linguaggio.

Ma già nel 1944 il filosofo tedesco Ernst Cassirer aveva scritto:

«La realtà fisica sembra retrocedere via via che l’attività simbolica dell’uomo avanza. Invece di avere a che fare con le cose stesse, in un certo senso l’uomo è continuamente a colloquio con sé medesimo. Si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi, a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione.»[6]

La realtà fisica sembra retrocedere perché anziché avere a che fare con gli oggetti reali li sostituiamo con dei simboli, parole e immagini. A colloquio con sé medesimo perché ogni volta che si incontra un simbolo, e anche le parole lo sono, è necessario fare i conti con la propria esperienza, per capire quale significato ognuno dà loro.

silhouette di testa umana con parole colorate nella zona del cervello

Per questo mi immagino che ogni volta che ascoltiamo una nuova parola e ne apprendiamo il significato riempiamo un vasetto di vetro con le nozioni che abbiamo appreso e le sensazioni che abbiamo provato in quel momento, e vi apponiamo un’etichetta con su scritta la nuova parola.[7]

D’altra parte capire viene dal latino capio, capis che significa contenere, ecco perché penso ad un contenitore per ogni parola. Anche testa in molti dialetti meridionali si dice capa, o in italiano capo, e in barese una boccetta in vetro si dice capasidde.

Ma come possiamo contenere nella nostra testa un albero o semplicemente una noce? Dobbiamo ricorrere a dei simboli: le parole, appunto. Ecco, scrivo una parola: apoftegma: sì è una parola della lingua italiana derivata dal greco, anche se poco usata, non so quanti la conoscano, o la capiscano. Vuol dire sentenza memorabile, detto breve e sentenzioso, motto, quindi potremmo anche dire slogan. D’ora in poi la ricorderemo insieme alla figura del vasetto, a questo libretto, alle persone con cui la condividiamo adesso, al luogo nel quale ci troviamo, ecc., per un certo periodo, a seconda dell’emozione che ci ha dato e finché ci serve. Poi, forse, se non ci servirà, più la dimenticheremo. Il luogo d’origine, l’esperienza, le emozioni, la cultura di ciascuno riempiono le parole di significati diversi. Ogni volta che ascoltiamo le parole, ogni parola, apriamo il suo vasetto contenuto nella nostra testa e vediamo cosa contiene.

Nel vasetto con l’etichetta Mamma ci starà il suo profumo, la sua tenerezza, il suo lavoro, la sua cucina, i suoi abbracci, la sua voce, ecc., tutto quello che parla di lei. Tutto molto personale. Ognuno perciò dà ad ogni parola un proprio significato. Ed è per questo che le parole sono molto spesso fonte di equivoci, di fraintendimenti, incomprensioni e litigi. Cosa può significare la parola comunismo per una persona di orientamento politico di destra e per una di sinistra? È la stessa parola, ma con significati molto diversi se non opposti. Il significante (la parola) è la stessa, ma il significato può essere molto diverso.

Ne I viaggi di Gulliver Jonathan Swift (1667-1745) racconta di alcuni scienziati, studiosi di musica e matematica un po’ bizzarri, abitanti della terra fluttuante di Laputa, che si chiedono se non sia più giusto abbandonare le parole e tornare a comunicare mostrando gli oggetti, come si doveva fare prima della nascita dei linguaggi.[8]

Se si vuol dire pietra, si deve mostrare una pietra. Questo sarebbe un discorso oggettivo, comprensibile immediatamente da tutti, senza fraintendimenti, perché la pietra sarebbe solo quella, con quel peso, quella grandezza, quel colore, e così via, senza fraintendimenti. Discorso non più soggettivo, nel quale ognuno pensa ad una delle sue pietre, ma oggettivo. Quindi se si vuole fare un lungo discorso bisogna avere degli schiavi che portino sacchi pieni di oggetti per poterli mostrare all’occorrenza. Ma allora come mostrare parole come mare, infinito, Dio, amore, tenerezza, pensiero, ecc.?

Non si può, se non ricorrendo ancora a delle mediazioni, a dei simboli, come parole e immagini. Non possiamo più conoscere la realtà se non per il tramite dei simboli, costituiti appunto principalmente da parole e immagini.[9]

Note

1 - Per approfondire l’argomento si veda Geppi De Liso, Creatività & Pubblicità, Franco Angeli, Milano, 2018, pp. 20-21.

2 - ­­­Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Bompiani, Milano, 2004, p. 273.

3 - Dall’articolo di Giorgio Moretti pubblicato su «Fanpage» il 30 giugno 2018 “La ricerca di Tullio De Mauro sulle parole conosciute dai ginnasiali è una bufala?”

4 - Cfr. Roland Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino, 1966, pp. 13-16 e Gianfranco Marrone, nell’introduzione a R. Barthes, Scritti, Einaudi, Torino, 1993.

5 - Umberto Eco, Segno, Enciclopedia filosofica Isedi, Milano, 1973, p. 92.

6 - Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo, in Michele Rizzi, La pubblicità è una cosa seria, Sperling & Kupfer, Milano, 1987, p. 24.

7 - Temi da me trattati in Marchi. Tutto quello che è utile sapere, Lupetti Editori di Comunicazione, Milano, 2020.

8 - Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, 1726. Cfr. A. Kondratov, Suoni e segni, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 27.

9 - Simbolo deriva dal latino symbolum, che deriva dal greco symbolòn, "accostamento, segno di riconoscimento", che deriva dal verbo symballo "unire, mettere insieme": gli antichi Greci infatti chiamavano simboli le due parti spezzate di un oggetto, come un medaglione, o un pezzo di legno, o di coccio che, ricomposte, servivano come mezzo di riconoscimento. Il suo contrario è diabàllo da cui “diavolo”: colui che divide (da Dio).

Crediti fotografici

Manos en negativo de Altamira y caballos rojos. Museo de Altamira y D. Rodríguez

Foto di yamabon da Pixabay

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay