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Magritte grafico e pubblicitario

Nei primi anni Venti, René Magritte lavora come disegnatore in una fabbrica di carta da parati; insofferente di regole e vincoli, lascia il lavoro, ma è costretto, per mantenersi, a disegnare manifesti pubblicitari, pur considerandoli "lavori imbecilli". Il suo rapporto con il mondo della pubblicità e della comunicazione di massa si può facilmente evincere da questa sua affermazione:

Ho fatto il manifesto con le mani su un fondo nero: le lettere erano bianche. L'effetto è stato notevole e dello stesso ordine di un quadro riuscito. Solo che per il pubblico ci vogliono soltanto cose mediocri. [corsivo mio]

Esso è anche da collegarsi alle sue riflessioni circa l'arbitrarietà del segno linguistico e la convenzionalità delle relazioni tra segno e referente:

Seules méritent d'être prises en considération les recherches où l'on s'est libéré des habitudes d'un monde qui a donné toute sa mesure et qui, maintenant, se décompose.

Se, come afferma Trimarco (1985), "la storia di Magritte, grafico e disegnatore pubblicitario, è l'itinerario di un fallimento", ciò è forse da ascriversi allo scollamento da lui operato fra cose, parole e immagini. Invece, l'immagine pubblicitaria di un prodotto o di un'azienda deve far sì che la relazione fra nome-immagine-prodotto sia strettissima, che il nome sia riempito di contenuti, che, per esempio, fra un cavallo bianco che corre in riva al mare e la parola Vidal (e quindi il prodotto bagnoschiuma Vidal) l'associazione sia immediata e generalizzata, secondo il rapporto di scambio uguale (significato-significante, segno-referente) della semiotica Saussuriana.

Magritte invece sovverte la linearità del rapporto segno-referente "con un pizzico di sottigliezza paradossale, restando all'interno dello stesso codice iconico" (Menna 1975): egli dipinge immagini con una tecnica quasi illusionistica a cui fanno contrappunto la collocazione non convenzionale (la tela raffigurante una fetta di formaggio chiusa in una vera formaggera) o la didascalia straniante (celebre l'esempio della pipa, cfr. oltre).

Afferma Rubin (1972) che "uno stile realisticamente descrittivo come il suo corre il rischio di presentare l'immagine dipinta come un mero sostituto dell'oggetto stesso", ma "la trasformazione risulta dalla rappresentazione dell'oggetto su una superficie piatta e delimitata - cioè come immagine".